L’Ignoto Marinaio – CUFFARO FACCIA CIÒ CHE VUOLE, MA NON IL POLITICO: HA SALDATO I CONTI CON LA GIUSTIZIA, MA CI SONO CONTI CHE NON SALDERÀ MAI (appunto per i bibliofili messinesi)

L’Ignoto Marinaio
CUFFARO FACCIA CIÒ CHE VUOLE, MA NON IL POLITICO: HA SALDATO I CONTI CON LA GIUSTIZIA, MA CI SONO CONTI CHE NON SALDERÀ MAI (appunto per i bibliofili messinesi)
Se incontrassi Totò Cuffaro per strada lo saluterei, mi fermerei. Un attimo. Gli stringerei la mano. Tornando a casa me la laverei, insieme all’altra. Come faccio ogni giorno. Senza sovradosaggi di “liquid soap”. Un gesto di buona educazione. E poi ognuno per la sua strada. Com’è sempre stato. No, non farei finta di non vederlo. Non mi girerei dall’altra parte. Non mi piacciono le ipocrisie: lo conosco, siamo stati colleghi. Un rapporto normale. Come altri. Però mai stato amico, troppe le distanze. E le differenze. Erano altri i suoi amici. Tanti. Anche a Messina, a bizzeffe. Stretti, strettissimi. In primis i “democristiani”: D’Alia e Genovese. A Roma sopra tutto e sopra tutti, Casini. Padre politico di Gianpiero. Pier Ferdinando disse, prima della condanna, che su Totò avrebbe messo la mano sul fuoco. Non lo fece fisicamente, per sua fortuna: se la sarebbe bruciata. Ma ha voluto scontare un po’ di pena dell’incauta fideiussione rilasciatagli coram populo:”Io vado a trovare Cuffaro in carcere regolarmente e non me ne vergogno. È un mio dovere morale“. Dopo Rebibbia tutto è cambiato. Non si vedono. Non si sentono. E tra Totò e il figlio di altro Totò, Gianpiero, sono volati gli stracci. Cuffaro prima si è avvicinato al Pd: ma il giovane Raciti ha visto in lui la faina vicino al pollaio. E ha chiuso la stìa. Conoscendo i suoi polli. Vecchi: Mirello, Lillo, e altri sinistri diversamente cuffaristi. E nuovi: i Renzi boys guidati da Faraone. Tutti pronti ad accogliere i fedeli di Vasa Vasa. Cioè lui. Pensavano: non olet. Nulla da fare. Porte chiuse. Così Totò ha puntato la gracile Udc di Cesa che ha cacciato di casa i casiniani. I quali gli hanno fatto casino; il vecchio lupo in libertà si è beccato una stangata sui denti da Ardizzone: l’Udc ha rapporti con “cocainomani e mafiosi”. Non parlava di me, né di voi. La pietas pierferdinandea si è inabissata. Come l’isola dello stesso (quasi) nome tra Pantelleria e Sciacca due secoli fa. E il “carissimo amico”, come si chiamavano tra loro scudocrociferi, è diventato per D’Alia, “il signor Salvatore Cuffaro”. Come dire: il signor nessuno. Il quale giura: “Non faccio né potrei fare politica attiva. Sono interdetto dai pubblici uffici, ma non dal pensiero e dal ragionamento, dall’osservazione, dall’analisi e dal commento sui fatti della politica”. Bugiardo. La fa, la fa. Eccome. “Salvatore Cuffaro, detto Totò, è un ex politico italiano”: bugiarda pure Wikipedia. Non è affatto ex. È in servizio. Si è scelto il ruolo di regista. Per adesso. La sbornia mediatica, dopo anni di astinenza, gli fa perdere lucidità. E appena può canta. Tutto e il suo contrario. Ecco: “Non posso segnare, perché non posso votare e candidarmi a causa della condanna, ma magari posso mandare in gol altri”. Il primo goleador a cui ha fatto l’assist è Fabrizio Ferrandelli, candidato sindaco a Palermo. Lo appoggiano lui, Miccichè e il vecchio compagno di merende Saverio Romano. La destra di Meloni e Salvini, si chiude il ferro dietro la porta, con un giovane candidato sindaco delle “Iene”. E il centrodestra, senza destra, è la “famiglia Addams”, dice Gianpiero. E Leoluca Orlando, ricorda al sig. Cuffaro: sei “un condannato per mafia”. Che mira al colpo grosso contro il sindaco antimafioso per eccellenza. E contro Nello Musumeci, simbolo antimafia quanto lo è un ex presidente dell’Antimafia. Con una storia onesta, a cui tutti s’inchinano. Non può fare il presidente della Regione: “troppo di destra”, dice l’ex presidente. Lui se ne intende. E io ho inteso. Come avete inteso voi. Fermiamoci qui. Non ho detto la mia quando l’anno scorso Cuffaro presentò a Messina il suo libro, accolto come un fratello da Francantonio Genovese e Roberto Corona. E da una pletora festante di consiglieri comunali. Gettonopolisti e non. E di “amici”, beneficati, ex foraggiati, pure compagni di scuola. Chiamati, uno a uno, per telefono. Come faceva un tempo. Non dimenticò nessuno. Ha le sue pagine gialle. Nomi, cognomi, recapiti. All’antica. Tanta allegria. E baci per tutti. Mancavano solo i cannoli. Portano male, anche se a Messina sono migliori di Palermo. Dalle campagne elettorali alle campagne librarie. La stessa bibliofilìa di Marcello dell’Utri, che non ha finito. È ancora dentro. Non puoi impedire, mi dissi, neppure a un condannato per mafia, di pensare, leggere. E scrivere. No. Ma ora…Ho letto la sentenza della Cassazione. La conosco. 220 pagine: un libro. Raccontano. Un pezzo di storia siciliana. Brutte pagine. Ma meglio ricordare che dimenticare: Cuffaro è stato condannato a 7 anni di reclusione per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento personale, con l’aggravante di aver favorito l’intera organizzazione mafiosa di Cosa Nostra. Per la Cassazione è certa la «sussistenza di ripetuti contatti» fra l’ex governatore e l’organizzazione. Così si spiega quale sia stato «l’atteggiamento psichico» dello stesso Cuffaro il quale rivelò al boss del Brancaccio, Giuseppe Guttadauro – condannato a 13 anni e con il quale aveva stipulato “un accordo politico-mafioso” – la notizia che c’erano indagini sul capo mandamento mafioso. E dimostrata o meno la famosa frase, captata dalle microspie, della moglie del boss (“veru ragiuni avìa Totò Cuffaro” ), per i giudici ci fu consapevolezza dell’ex presidente di agevolare l’associazione mafiosa, inserendo in lista per le regionali del 2001 persone gradite ai boss. I quali furono informati di indagini nei loro confronti. La Cassazione ha stabilito che Guttadauro strinse l’accordo con Cuffaro, tramite Miceli, «proponendo all’uomo politico, che accetta (e inserisce nella lista) la candidatura alle elezioni regionali del Miceli, mobilitando l’intera famiglia mafiosa per le consultazioni, al fine di ottenere il sostegno per un ridimensionamento del regime carcerario del 41 bis, per il controllo dei flussi della spesa pubblica e per il condizionamento delle attività economiche sul territorio: tutti interessi dell’associazione mafiosa che Miceli si era impegnato a realizzare”. Non si può e non si deve dimenticare questo pezzo del nostro vissuto collettivo. Va bene: Cuffaro è stato un detenuto modello. Ci ha guadagnato notevoli sconti di pena: invece di sette si è fatto meno di cinque anni. Giusto. Ne sono contento per lui. Come della sua laurea in giurisprudenza. E dei libri che ha scritto. Gli auguro un futuro radioso. Medico, avvocato, scrittore, imprenditore. Può fare tante cose. Anche il giornalista. E il professore di giornalisti. Come a Palermo e Agrigento nei corsi organizzati dall’Ordine. Il mio. Magari la prossima volta gli facciano fare qualche lezione di giornalismo antimafia. Perché no. Ma non è certo colpa sua. Spettava ad altri evitarlo. Lui ha saldato il suo conto con la giustizia. È un uomo libero. Faccia ciò che desidera. Ma non faccia l’uomo politico. Non può e non deve farlo. Nè sulla scena, né dietro le quinte. Mai più. Sia un “ergastolano”: non faccia politica per tutta la vita. O un monaco di clausura, se più gli fa piacere. Lo dico senza disprezzo. Anzi, con rispetto. Ma ci sono cose scomode che qualcuno deve pur dire.’Tra troppi silenzi. E sottintesi. Che sono humus di complicità. Di omertà. E del suo eterno ritorno. È la banalizzazione di cose gravi. Come la capacità di tanti siciliani di andare ai cortei per Falcone e Borsellino e agli incontri con Totò Cuffaro. Con assoluta naturalezza. O beata e beota indifferenza. Chi è stato condannato per fatti di mafia non può fare politica per tutta la vita. Ci sono conti che non si saldano mai. Cuffaro si è condannato da sé. Deve vergognarsi chi tace, non chi lo dice. Io lo dico. E lo scrivo.