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L’Ignoto Marinaio – IL LIBRO SULL’ICONA ACCORINTI: LO PRESTI E STURNIOLO INCENDIARI BIOGRAFI DELLA FAKE-RIVOLUZIONE

L’Ignoto Marinaio

IL LIBRO SULL’ICONA ACCORINTI: LO PRESTI E STURNIOLO INCENDIARI BIOGRAFI DELLA FAKE-RIVOLUZIONE 

A leggere “Assolto per non avere compreso il fatto“, il libro di Nina Lo Presti e Gino Sturniolo (Armando Siciliano Editore), hai subito due sensazioni. La prima: è scritto bene. La seconda: il titolo è incongruo. Incoerente rispetto a ciò che, lungo un corrimano di cocenti delusioni e di spietati “j’accuse”, le duecento pagine raccontano: una vera biografia politica e amministrativa della fake-rivoluzione messinese e del suo indiscusso protagonista, il “sindaco icona” Renato Accorinti. Titolo che può sembrare persino reticente dei contenuti che, invece, sono per niente timidi e prudenti. Dico, già adesso, a beneficio del lettore, che il verdetto del libro non è di assoluzione ma di condanna inappellabile del sindaco “tibetano”. E ciò, sulla base di ricostruzioni che mettono in mostra anche la cassetta degli attrezzi e il profilo reale degli autori: due intellettuali dai solidi ancoraggi nella storia delle idee, finiti per caso in un’assemblea municipale, screditata e caudataria. Un know-how che fornisce a Lo Presti e Sturniolo, espressione di un’élite progressista – colta e usa a documentarsi con pedanteria, a dispetto dell’asserita fede nella politica dal basso – l’abilità di acquisire la chiave di saperi amministrativi e tecnici anche lontani dalla loro formazione originaria. Tuttavia, è come se, al momento di trovare le due righe in copertina, il loro Logos fosse stato annacquato da una sopraggiunta preoccupazione di avere esagerato, di essersi spinti oltre. Il che potrebbe indurre in errore  e distrarre l’interesse di chi, conoscendo almeno una parte dei fatti esposti, si dovesse fermare a quelle due righe. Neo questo – insieme ai limiti che più avanti accenneremo – largamente compensato da una prova di stile, rara: da semi-eroi quotidiani, mi verrebbe da dire, se l’appellativo non fosse rifiutato dagli interessati, credenti razionali di un immaginario Ordine Collettivo. Per un paradosso che la Politica, beffarda, riserva agli uomini e alle donne che decidono di immergersi in essa, il vero fatto “rivoluzionario”, nel tempo che viviamo, non è che  Lo Presti e Sturniolo siano stati fondatori ed “eletti” di una rivolta ideale posticcia; è, invece, che abbiano trovato il coraggio di lasciarla al suo destino. E che si siano dimessi da un “luogo” – il Consiglio comunale – che, nell’economia dei piccoli e grandi interessi locali, non si molla mai: assioma di meschina furbizia che le classi dirigenti si tramandano. Un “depositum fidei” oggi più seguito che mai. Ma non dai due trasgressori, i quali hanno deciso – affermano – di “uscire dallo spettacolo” della rivoluzione mancata. E tradita. Stranieri a un consesso, dai tratti miserabili,  che ha conservato il Sindaco scalzo, insieme a se stesso. Non inganni dunque il titolo di proscioglimento, pur icastico. È una finzione; il leitmotiv – come dicevo sopra – è di condanna. Definitiva. Con una “sentenza” tanto dura, quanto argomentata.

Perché la voce narrante i quattro anni di gestione della cosa pubblica, non risparmia nulla ad Accorinti. Ma proprio nulla. Combattenti di una ribellione civile che si è rovesciata in una restaurazione mascherata – stretti tra una prefazione al libro “dottrinaria” e contributi finali radicali –  Lo Presti e Sturniolo si sono trasformati in incendiari biografi dell’accorintismo; e, carte alla mano, inchiodano il “loro” sindaco al giudizio di “male assoluto” nella storia del governo cittadino. Il frutto – scrivono – di un'”allucinazione collettiva”, vero e proprio “caso di doping cerebrale”. Che ha prodotto un’amministrazione di “diversi dalla politica tradizionale”. Ma che “sono peggiori”. Perché Accorinti e i suoi assessori hanno dato vita a “una involuzione del sistema dei partiti” dove almeno “sono, in genere, abbastanza chiari la composizione governativa e l’equilibrio delle forze politiche e sociali che lo determinano. Nel caso della Giunta Municipale messinese rimangono oscuri i luoghi nei quali le decisioni vengono prese e le persone che siedono ai tavoli nei quali queste vengono assunte. Quanto accade con l’esperienza accorintiana, ma davvero sembra il segno dei tempi, è che parti del potere politico, economico, professionale, culturale della città – spiegano – si appropriano direttamente dell’amministrazione. Non hanno bisogno di passare dalla fatica della rappresentanza politica. Se ne impadroniscono” (pag. 130). Sembrano voler dire, anzi lo denunciano, con crudeltà espressive: Renato è peggio di Francantonio, peggio di Peppino. Perché saltando i filtri della mediazione, ha consegnato la città ai poteri forti, a gruppi predatori. Era difficile, ma ci è riuscito. Parole come pietre. A partire da quelle lanciate sui rapporti umani, sui pre-requisiti della lealtà dei comportamenti. “Al confronto di quelle di Renato, le promesse di un marinaio sono solide come un contratto sottoscritto davanti a un notaio”, scrivono gli autori. E aggiungono: “Accorinti è riuscito a imbrogliare tutti” (44). Alla sassaiola seguono autentici macigni scaraventati su una “figura caricaturale che mentre cerca di ‘cambiare l’anima della gente alla ricerca della purezza per raggiungere livelli sempre più elevati di umanità che sfiorano la dolcezza della vita e dunque della felicità’, li fa vivere -scrivono – senz’acqua, accerchiati dalla spazzatura, cinti d’assedio dalle discariche abusive, asserragliati dai tir anche in centro città, strozzati   da una crisi finanziaria che ha falcidiato l’economia cittadina in avanzata recessione” (53). Tutto dovuto a un capo amministrazione il quale con “le sue ellissi involontarie, le ambiguità, le iperboli, la falsa ingenuità, l’incompetenza endogena, ha causato il rovesciamento della razionalità che non è la follia dei giusti, ma è la perdita del senso delle certezze logiche”. (51). Quanto alla scelta degli assessori – uomini e solo qualche donna di passaggio -emblematica è stata la nomina di “Cacciola, De Cola e Cucinotta: tre scienziati (furono definiti tali) al servizio della collettività animati da uno straordinario e fervido moto interiore di abnegazione, tale da far loro preferire l’ ‘amor di patria’ alle proprie faccende personali e professionali” (41). In particolare, l’ “esperienza della potenza della scienza di Signorino”, sostanzialmente seguito anche dal renziano Eller” (il quale non si salva con tardivi attacchi a una gestione di cui è correo), è il lenzuolo bucherellato di “un’impostura”: si “rielabora il passato in chiave assolutoria” in nome di cui le responsabilità delle precedenti amministrazioni “sono state lavate, giustificate, perdonate e condivise”. In questa cornice in cui Accorinti e “la sua squadra di supereroi mutanti” – definite con raffinato disprezzo “tutte eccellenze contagiate dalla sindrome del genio incompreso” – hanno creato “una politica che garantisca la stabilità tra il nuovo e il vecchio e cementifica (al di là degli scontri pre-elettoralistici e ad uso e consumo delle rispettive tifoserie) un rapporto solidale tra il tempo di ‘quellidiadesso’ e il tempo di ‘quellidiprima’ “. Lo strumento della continuità perfetta tra vecchio e nuovo – questa la tesi che fa da pilastro all’impalcatura del libro – è il Piano di Riequilibrio. Il quale aspetta da quattro anni l’approvazione da parte del Ministero e della Corte dei Conti” – si ricorda – e che gli autori sezionano e scavano in ogni voce contabile, ma con una pre-comprensione che ne afferra il senso politico. Un Riequilibrio preferito a una doverosa dichiarazione di dissesto, che Accorinti aveva prima agitato e poi smentito, con una lettera formale in campagna elettorale. Il motivo è che questo strumento, a differenza del default, funge da “camera di compensazione per tutti gli errori, gli arbitrii, gli sprechi, le responsabilità, passati e presenti; un alibi che assolve tutti, nessuno escluso”. In questa  decisione che devia da “un contesto in cui i precedenti amministratori verranno sottoposti a giudizio dalla Procura della Repubblica di Messina per la mancata dichiarazione di dissesto”, viene costruita a tavolino “la volontà di unire la classe politica, vecchia e nuova, con il sacro vincolo della corresponsabilità, di impedire che il Comune fallisca e con esso periscano anche quelle rendite di posizione garantite dai flussi di denaro pubblico e prosciogliere da ogni accusa di mala gestio i responsabili del dissesto affinché possano continuare impunemente a rappresentare ‘gli interessi della collettività’ ” (63).

Non potendo attuare “l’audit del popolo” sui debiti comunali, la verifica l’hanno fatta gli autori del libro: con pazienza meritoria e capacità di elaborare una “vulgata versio” per il pubblico dei non addetti ai lavori. I risultati di maggior valenza politica rivelano che i “debiti del Comune sono fortemente concentrati. Poche società e singoli creditori detengono gran parte del credito. La figura del ‘fornitore di toner’, utilizzata dal sindaco come esempio di giusto debito da risarcire, non ha alcuna rilevanza sulla massa debitoria”; e che nella massa dei creditori “la fanno da padroni i grossi gruppi finanziari per debiti che si sono formati intorno ai grandi appalti (svincoli, stadio San Filippo, parcheggi, illuminazione pubblica…)”. Così, sulle pagine vengono fatti scorrere i soliti nomi dell’imprenditoria locale, unitamente a quelli di rinomati studi tecnici e legali: non toglierò al lettore il piacere di andare a spulciarseli.

Intanto l’interrogativo che il libro, con finta noncuranza, sputa da dentro – il “Ci sarà un giudice a Berlino ? Forse” – sembra avere avuto una puntuale risposta: la magistratura ha aperto un’inchiesta sui bilanci di Accorinti. Nè più, né meno di come l’aveva aperta su “quelli di prima”. Aspetteremo gli sviluppi.

Il volume offre poi al cittadino-lettore  una visuale completa della Spectre Tibetana: dal fallimento della “raccolta differenziata” limitata a due quartieri e con un aggravio di spese che ne annulla l’utilità, al naufragio dei Beni comuni e della partecipazione promessa. Dal “lungo inverno delle politiche sociali”, ai Patti milionari sottoscritti dal sindaco in un Palazzo festante per la presenza dell’allora premier; “un’operazione di marketing del governo Renzi” che ha fatto un po’ di cosmesi a finanziamenti disponibili da anni: soldi vecchi versati in contenitori nuovi. Operazione a cui Accorinti si è prestato: consapevole che quei soldi li hanno dati a lui, “ma li avrebbero dato anche a Paperino, se fosse stato sindaco”. Fino all’uso cinico di un dolore che non prova per gli immigrati annegati testimoniato dalla “presenza di Accorinti sui moli catanesi all’arrivo delle bare quando le telecamere nazionali erano a tiro”.

Tema sensibile per i sindaci icona è sempre stato il triangolo trasparenza-legalità-antimafia. Il pamphlet non si sottrae dal prenderlo di petto, in modo esplicito e abrasivo. Nel mirino della terribile coppia finisce inevitabilmente Sergio De Cola, titolare delle delle deleghe urbanistiche, su cui aleggia un conflitto d’interesse imbarazzante. Tra i debiti certi ed esigibili del Piano di Riequilibrio infatti è inserito quello vantato per la progettazione del basamento del Pilone di Torre Faro – proprio quello su cui si arrampicò il sindaco nella sua vita precedente – dallo “studio De Cola, con Baldo di Vinadio e Buffi, attuale assessore della Giunta Accorinti, con oltre 300.000 euro” (73). De Cola finisce anche nel Programma Triennale delle Opere Pubbliche –  denominato “libro degli incubi” più che “libro dei sogni” – non come titolare della delega al ramo, ma perché vi trovano posto “opere progettate dallo studio dell’Assessore all’Urbanistica, un ingegnere – scrivono Lo Presti e Sturniolo – che nessuno di noi, nei ’40 anni di lotta’, ha mai visto calcare le piazze della protesta né della società civile né della sinistra?! Suo è il progetto di riqualificazione del basamento del pilone di Capo Peloro (già inserito nel Masterplan)”. Il giudizio sull’assessore – accusato di essere sponsor del progetto Tirone –  è lapidario: ” De Cola è tanto gentile quanto deciso nel difendere il proprio punto di vista  e i propri interessi”. Con fucilata: “non c’è nulla di meno trasparente di questa esperienza politica e amministrativa” (158).

Non sono più generose le righe riservate alla legalità e all’antimafia di Accorinti.”Attraverso una furba estetica – leggiamo – egli è riuscito a mantenersi interno a circuiti di movimento e associazionistici, facendo l’antimafia, senza aver mai mosso un dito, da Sindaco, contro la mafia” (131). Le prove a carico ? Le polemiche sulla continuità delle presenze dietro e sotto la Vara, lo scontro con “Addiopizzo”, la scelta di tecnici collegati con la vicenda giudiziaria di Tirreno-Ambiente vengono portate come materiali probatori di questa discrasia tra parole e fatti. A cui si può aggiungere lo sganciamento dalla legalità predicata, su ordinanze, nomine, bilanci e missioni.

Il resto trovatevelo da voi, anche se non è poco ciò che mi sono sforzato di sintetizzarvi. I limiti del libro ? Ci sono. E, per me, sono tre.

Il primo: gli autori non sciolgono un nodo. E ciò forse dà conto del titolo disallineato. E chiarisce anche perché, con zelo eccessivo, mi sono soffermato su una questione che può essere percepita come secondaria. Ecco il nodo: alla fine della cavalcata sui fatti della fake-rivoluzione, il libro “non conclude” sulle cause che sembrano miscelarsi nel diario degli avvenimenti. Eccole. Il “caso Accorinti” nasce davvero da una, pur parziale, “incomprensione” dei fatti, da parte di un uomo sostanzialmente ignorante di cultura politica, di amministrazione pubblica o tout-court (“mai ha fatto professione di essere un intellettuale o di leggere molti libri”, annota Pietro Saitta nella prefazione). Oppure: è espressione di un progressivo distacco dall’idea originaria di “disobbedienza”, fino al tradimento del progetto rivoluzionario ? O, infine, è stato un lucido e cinico sfruttamento di     movimenti, gruppi, uomini e donne che “ci credevano” da parte di un impostore (“siamo stati noi strumento del suo progetto personale”). Insomma un Tartufo rivelatosi tale. Sembra prevalere quest’ultima tesi. Ma messa in un cocktail con gli altri ingredienti e non rispondente Il secondo deficit è dato dall’incapacità, forse inevitabile, di cogliere che il “No Ponte” è stato nella storia della città, oltre a un’ingenua bandiera di minoranze in buona fede, un formidabile “ponte” tra interessi economici, personali e politici, noti e costituiti – a partire da quelli dei traghettatori privati – che si sono saldati nell’impedire la costruzione del manufatto stabile. Non mancano precedenti di alleanze “innaturali” tra imprese e movimenti ecologisti. Commistioni, ufficialmente impensabili, si consumano dietro dietro le quinte. Alle spalle del popolo ignaro, in atmosfere da “Contesto” sciasciano. Nina Lo Presti e Luigi Sturniolo – che avranno subìto il fascino della narrazione di Vendola – si saranno, ad esempio, interrogati – su ciò che ha rappresentato la risata, confidenziale e agghiacciante, intercettata tra l’allora governatore della Puglia e i vertici dell’Ilva. Sul piano della simbolica, intendo.

Renato Accorinti – al di là delle relazioni intrattenute prima della sindacatura con questi mondi – è nato e cresciuto in quel brodo di coltura, in quel laboratorio sociale e politico. Un back-ground che gli è tornato utile – ma qui gli autori del libro non affondano il coltello, pur non sorvolando – quando Accorinti si è salvato dalla mozione di sfiducia, grazie ai voti dei consiglieri in mano a Francantonio Genovese. In nome della stessa bandiera: No Ponte. Il che – comprendo – sarebbe stato troppo per gli autori.

L’ultima questione attiene alla filigrana culturale del diario. Ripercorrendo alcuni tornanti della politica cittadina (“nel centrosinistra non tutti si sperticarono le mani per Calabró”), il libro si ferma sulla porta di un interrogativo che non scavalca se stesso:”E se Accorinti avesse vinto, non perché una regia occulta avesse deciso che doveva vincere, ma perché era la persona giusta al momento giusto?”. Potrebbero dare qualche risposta letture sul retropalco delle rivoluzioni, sulla loro meccanica, sulla loro ripetizioni, su copioni e maschere: da Francois Furet ad August Cochin, fino a Oswald Spengler e Augusto del Noce. Letture “di destra”. Certo, è pretendere troppo. Ma confido nella curiosità intellettuale di Nina Lo Presti e Luigi Sturniolo. E dei miei quattro lettori. Non si sa mai.

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