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L’Ignoto Marinaio – Meglio un giorno, da intellettuale di città

L’Ignoto Marinaio

MEGLIO UN GIORNO, DA INTELLETTUALE DI CITTÀ

La presentazione di un libro di Fabio Granata e il suo titolo (“Meglio un Giorno- La destra antimafia e la bandiera di Paolo Borsellino”,  Eclettica editrice), hanno fatto bussare alla mia mente un paio di  domande solo “prima facie “impolitiche: Messina ha risorse culturali attive da giocare al tavolo del suo presente? Può trovare in se stessa tracce e radici che accendano scintille di un focus di ritrovata consapevolezza, di ritorno a identità di popolo, di capacità  di azione e reazione? Se la politica non produce energia critica e  mobilitazione contro il Palazzo, solidarietà alla gente che disvive una città senza guida politica e morale, perché non si sente la voce  degli intellettuali? Ma, ci sono intellettuali a Messina? La mia risposta a quest’ultima interrogazione è sì, ci sono. Poi una  constatazione: ma sono muti. Sono in silenzio. Per intellettuali  intendo quei ceti sociali che ai mondi vitali della cultura sono  legati da relazioni di appartenenza: professionale, artistica, o da ambedue. Ci sono sicuramente artisti, scrittori,  editori,  attori,  registi,  docenti  universitari,  giuristi,  teologi,  uomini e  donne della scienza, della medicina e della tecnica, dell’alta amministrazione e dei media, per  fare qualche esempio. Io ne conosco in città, di qualcuno apprezzo  doti culturali, umane. Notevoli, talvolta. Ma tutti, o quasi, amano la loro tana: casa, auto, parrocchia, facoltà, istituto di ricerca,  studio, cinema, ospedale, circolo, ufficio, redazione. Non ci mettono  il naso fuori, neppure per odorare l’aria che olezza di rifiuti non  raccolti. Imprecano contro la buca in cui incappano con l’auto,  mugugnano contro le scuole fatiscenti che frequentano figli e nipoti. E scansano le diligenze trainate da bus e tram, indecenti e attesi  come Godot; soffrono, sbuffano, sospirano. Si fanno i loro amarcord, i  bei tempi andati quando bimbi o giovani passavano il tempo da Irrera. Quando a piazza Cairoli. Quando a teatro. Quando le vetrine. Quando in Duomo. Quando, quando. Ma tutto resta chiuso nell’ampolla del  pensiero, lì asserragliato e sublimato. Rimbomba nell’ovatta dei loro  cervelli preziosi e autosufficienti. Sonnecchia sotto la bandiera del  “chi me lo fa fare”. Li aspetta il pranzo domenicale, l’estate al Faro, il viaggio organizzato, la missione romana, l’annuale crociera, il pokerino tra amici o il funerale fast. Anche lì: o tempora o mores.  Non se ne può più. Ma sottovoce, sussurrano. La città- cimitero con un  sindaco chic, è la giusta ambientazione, decadente, per loro anime  immote e belle. Gli sta bene. È il migliore, o meno peggiore, mondo  possibile per il borghese della cultura, il pensatore improduttivo, il  prof che aspira a un figlio prof, un’esistenza con la maglia di lana o  la coperta di Linus. Hanno votato Accorinti. Tanti. Sono i complici del disastro. Come fanno adesso a tornare indietro ? Come ammettere  che, dopo essersi usurati nelle sale d’attesa della Prima e della  Seconda Repubblica, hanno scagliato il rancore dell’ultimo favore non  fatto cavalcando l’onda del Tibetano ? Ma la rivoluzione è fallita e  ha fallito. Così, mecenati e tromboni della rivoluzione ora negano di  esserlo stati. Ma non protestano, non criticano, non dibattono. Non  parlano. Non scrivono alla e sulla Gazzetta. Auscultano, scrutano,  fiutano. Cercano di capire chi è il nuovo che avanza. Che vedranno  arrivare, senza muovere un dito, senza sprecare pensieri e parole.  Loro sono lì. Aspettano. E serviranno la loro kultura in guanti  bianchissimi, organizzeranno il dopo-cena per il vincitore che ha già vinto; spiegheranno, analizzeranno, legittemeranno, si proporranno.  Meglio un giorno, non fa per loro. Anche la controrivoluzione avrà  bisogno di noi intellettuali, no?