L’Ignoto Marinaio – Macché Cervantes a Messina: la Storia sono loro, i tibetani nani di Accorinti. Che si vedono giganti.

L’Ignoto Marinaio
Macché Cervantes a Messina: la Storia sono loro, i tibetani nani di Accorinti. Che si vedono giganti.
“Siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti“. Dobbiamo a Bernardo di Chartres, filosofo francese del XII secolo – ce lo riferisce il suo allievo Giovanni da Salisbury – questa intuizione felice. Che non vale nella Messina contemporanea governata da Accorinti. Per Renato il gigante è lui, il moderno. Gli antichi non esistono. Per il sindaco non esiste la Storia. Esiste la storia. La sua Piccola. Che lui vede come straordinaria. Non vede quella della città. Non esiste nulla di Prima. Nemmeno il Prima in cui Messina accolse e ispirò Grandi che hanno lasciato opere e pensiero nella cultura mondiale. Ecco il fondale della ragione per la quale Accorinti e i suoi non valorizzano radici, personalità, opere da cui fare ripartire la città. Darle una visione. E pensare in grande. Così lasciano nell’oblio orme e presenze, legami e ascendenze. Nietzsche, Schiller, Shakespeare, Caravaggio, Wagner, Pascoli, Goethe. Che amarono Messina. O semplicemente la pensarono. O la vissero. Anche Cervantes è stato ricoperto dal buio della memoria. Amputato dalla città. Che lo accolse. E lo curò. Sì, lui: Miguel de Cervantes. L’autore di uno dei capolavori di tutti i tempi, il Don Chisciotte. O più precisamente El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, scritto a Madrid nel 1605. Quanti sanno che Cervantes soggiornò a Messina sei mesi? Talvolta ho il sospetto ne abbiano cognizione pochissimi anche laddove dovrebbero. A Palazzo Zanca, di sicuro. Quello di oggi, intendo. Il Palazzo i cui abitatori passano per uomini e donne di alto intelletto, strappati alle loro scienze, per amministrare le nostre povere membra e cervella incolte. Non quello di ieri. Scontato che “quelli di prima” fossero l’esatto contrario di tanta inclita razza umana che si presta – lo fanno per noi – a occuparsi delle volgari pratiche del governo locale.
Miguel de Cervantes Saavedra, classe 1547, prima di diventare l’autore del Don Chisciotte, partecipò come ufficiale crociato – a capo di una squadra di dodici soldati – alla grande battaglia di Lepanto. A 24 anni si arruolò infatti nella compagnìa del capitano Diego De Urbina e prese parte alla storica battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571) contro i Turchi, che si concluse con la vittoria di don Giovanni d’Austria, il quale guidava la flotta cristiana. Fu in questa circostanza, sul ponte della galera “La Marquesa”, che Miguel riportò una ferita al petto e alla mano sinistra. Quest’ultima gli rimase menomata a vita. Lo ricorda egli stesso nel racconto dello schiavo – palesemente autobiografico – nel Don Chisciotte: “… decisi di lasciar perdere tutto e andare, come feci, in Italia, ove la mia buona sorte volte che fosse appena arrivato a Genova don Giovanni d’Austria, il quale da lì passava a Napoli, per unirsi alla flotta veneziana, come poi fece a Messina. In conclusione, dico, mi trovai in quella gloriosa battaglia, già divenuto capitano di fanteria, all’onore del quale grado mi fece salire più la mia buona fortuna che i miei meriti” (M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, vol I, cap. XXXIX). E qui egli cita espressamente Messina, dove sappiamo, che a seguito delle ferite riportate, fu curato per sei mesi presso il Grande Ospedale. La struttura sorgeva nell’area dove oggi si trova il Palazzo di Giustizia: qui restò ricoverato dal 31 ottobre 1571 al 24 aprile dell’anno dopo. Un fatto questo riportato da tutte le biografie di Cervantes. Il legame con la città è espressamente manifestato dallo scrittore anche in altre opere. Lo fa ne “L’ Amante generoso”, una delle dodici Novelle, pubblicate a Madrid nel 1613, due anni prima di scrivere il secondo libro del “Don Chisciotte”. Qui, nella narrazione della tempesta, egli menziona ancora una volta la città e i suoi ricordi siciliani, prima di finire prigioniero a Tripoli: “La nave volava con tanta leggerezza che nel giro di tre giorni e di tre notti, passando in vista di Trapani, di Milazzo e di Palermo, imboccò il faro di Messina, con spavento e meraviglia di quanti erano a bordo e di quelli che osservavano da terra.” (Miguel de Cervantes, L’ Amante Generoso, Passigli Editori).
E lo stesso fa nel “Dottore Vidreira” (Il Dottor Vetrata), novella basata tutto su un uomo, Tomas, che a un certo punto si convince essere fatto di vetro. “Indi – scrive – se ne andò in Sicilia, vidde Palermo, e poi Messina. Di quella la bellezza, e di questa il porto molto gli piacquero, e di tutta quell’isola la fertile abbondanza, dalla qual con ragione, viene ad essere chiamata il granaro d’Italia” (Miguel de Cervantes, Il Dottore Vidreira, www.cervantes.cab.unipd.it ).
E in un’opera successiva, “Viaggio al Parnaso” (1614), Cervantes rievoca l’episodio della ferita alla mano: “Que, en fin, has respondido a ser soldado antiguo y valeroso, cual lo muestra mano de que estás estropeado.
Bien sé que en la naval dura palestra perdiste el movimiento de la mano izquierda, para gloria de la diestra”. E fa riferimento allo Stretto di Messina, “descubrióse el corto estrecho que Scila y que Caribdis espantosas
tan temeroso con su furia han hecho”. (Miguel de Cervantes Savaedra, Viaje del Parnaso, miguelde.cervantes.com).
Beh, non è poco. Ce n’è abbastanza: Messina ha un posto ben definito nella vita e nell’ispirazione di Cervantes. Non è vero, come qualcuno ha scritto – esagerazione “buddacistica” – che l’autore iniziò il “Don Chisciotte” a Messina. Nessuna fonte lo prova: anche Wikipedia cade in questo errore. Non è nemmeno vero che il capitolo dei caprai – il XII del Primo Libro – sia il flash-back di un incontro sulle colline messinesi. Come se in Spagna o altrove non ci fossero colline o caprai. Che, peraltro, sono “topos” letterario affatto raro. Negli “Idilli di Messina”, ad esempio, c’è la poesia, di ben diverso tono e umore, denominata “Canto del capraio”. Ma Nietzsche scrisse gli “Idilli” quasi tre secoli dopo il “Don Chisciotte”.
Tuttavia, senza alcun bisogno di romanzare, ce n’è abbastanza per affermare il robusto collegamento tra uno dei nomi più celebri della letteratura e la nostra città. La quale però non ne conserva traccia. Sì, è vero, compagnie teatrali e associazioni culturali hanno di tanto in tanto messo in campo qualche spettacolo o convegno che prende spunto dal soggiorno di Cervantes nella città dello Stretto. Meritorie, ma saltuarie. Frutto di iniziative individuali. È anche vero che ogni anno viene rappresentato lo sbarco a Messina di don Giovanni d’Austria. Un grande corteo storico e navale che rievoca il ritorno vittorioso (1571) della flotta cristiana dalla battaglia di Lepanto. Purtroppo, tra i figuranti non ha mai trovato posto il personaggio la cui fama, col suo “Don Chisciotte”, sarebbe stata destinata a sopravanzare di molto quella dello stesso figlio naturale di Filippo V celebrato nell’evento. Don Juan è, giustamente, ricordato con la statua, costruita nel 1573, oggi situata – dopo alterne vicende – in Piazza Catalani, opera di Andrea Calamech, scultore e architetto carrarese, commissionatagli dal Senato messinese l’anno prima. Ma di Miguel Cervantes, non c’è nulla che lo rammenti Va bene: quei rozzoni degli amministratori degli anni bui, era naturale non badassero a queste cose. Ma la giunta Accorinti, che aveva fatto della Cultura un pilastro delle leopardiane “magnifiche sorti e progressive” di cui si proclama portatrice? Renato di questa roba mastica poco? Ma di quattro assessori alla Cultura, a nessuno è venuto in mente un’idea, un progetto, un quid che rievochi e “sfrutti” – sì sfrutti – la connection tra Cervantes e Messina?
Sarebbe così difficile un concorso di idee – magari tra artisti, anche giovani, pure con un semplice rimborso spese – per realizzare un’opera che richiami una memoria così significativa? E – andando un po’ più su – perché non pensare a un itinerario culturale e turistico, di respiro internazionale, fatto di “segni” materiali e immateriali che componga in una cornice i nomi illustri della cultura europea legate alla città? O un po’ più in alto: è così difficile per i raffinati cervelloni tibetani arrampicarsi fino all’idea di una Biennale dello Stretto che metta tutto insieme e ci costruisca su un brand e un’identità attrattiva anche per turisti e visitatori? Ve lo assicuro, Don Chisciotte e gli altri sarebbero d’accordo. Ve lo assicuro