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LA CITTÀ TRA FINTE E MASCHERE

L’ IGNOTO MARINAIO – Ho pensato al bel libro di Borges, ‘Finzioni’, letto e riletto nel tempo: rende il possente immaginario dello scrittore argentino. Costruzioni fantastiche, riflessioni teologiche e filosofiche, che danno il senso di un “méta”, un oltre: finzioni che rimandano a un che di superiore, oltre lo spazio e il tempo. E poi ho sentito il richiamo di ‘Uno, nessuno, centomila’ di Pirandello: la vita come scenario in cui si alternano maschere (tante) e volti (pochissimi). A questi due grandi ho pensato, non so pure io perché, leggendo le ultime cronache politiche che riguardano Messina. Forse per guardare, come si fa con un binocolo usato al contrario, una realtà politica piccola piccola. E tante maschere uguali nel Palazzo. Lontanissimo da cose e uomini grandi. Qui le finzioni diventano “finte”: non trovate geniali, ma mosse scontate, insieme a rituali polverosi, che io stesso che giovane non sono e politicamente ho vissuto tutto ciò che c’era da vivere, mi meraviglio i protagonisti possano credere di mettere ancora in scena, senza raccogliere lanci di sdegno o commiserazione. O, peggio, di totale indifferenza. Le “finte” sulla sfiducia ad Accorinti, annunciate e smentite da una fauna abbarbicata al suo habitat, fanno parte di questa rappresentazione. Seguire nei dettagli questa città politica, finta e finita, è inutile e per di più noioso. La vita e il quotidiano della gente scorrono altrove. Solo i consiglieri comunali, quasi tutti maschere autoreferenziali, complici di un sindaco fuori da tutto, forse pure di testa, non se ne rendono conto. Manovrati, col loro consenso, da forze e ‘personalità’ politiche, secondo loro tuttora ‘potenti’, ma in verità ombra di se stessi e di ciò che furono. Specie nelle pozzanghere centriste, un tempo praterie in cui era facile scorrazzare, si gioca ancora con la qualità della vita delle persone e il gioco, scoperto da tempo, è sempre quello di conservare se stessi. Anche l’irruzione del maestro dei fingitori, financo nella mimica, Matteo Renzi, ha seppellito ogni speranza di un quid da sinistra che potesse dare in colpo d’ala a una città distrutta da malgoverni e scetticismi diffusi. Con la sua retromarcia sul Ponte – “sì, ma tra 10 anni”, cioè mai – il Presidente del Consiglio ha scelto Messina per l’ultima ‘renzata’. Così l’ha condannata a continuare la sua corsa verso l’abisso; ma con la città il capo del governo e del Pd ha condannato anche la sua parte politica a nessun ruolo, né vecchio né nuovo. E ha eliminato dalla competizione per il futuro i suoi locali partigiani democrat: ininfluenti orfani di lui e di un passato arrogante e invasivo. Saprà l’altra parte, la “rive droit”, reduce anch’essa da fallimenti e insuccessi, approfittarne per rinnovarsi e vincere? O vuole continuare a latitare, senza voglia e senza idea delle cose da fare?

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