L ‘Ignoto Marinaio – Le “fere” di Horcynus Orca ascoltano la musica nomade?
L ‘Ignoto Marinaio
LE “FERE” DI HORCYNUS ORCA ASCOLTANO LA MUSICA NOMADE?
Lessi “Horcynus Orca” poco dopo la sua uscita, oltre 40 anni fa. Ero giovanissimo. Mi avventurai nella lettura di quel “mattone” di oltre 1000 pagine, con l’attrezzatura mentale di una fresca Maturità classica. Mi incuriosiva quella storia solitaria di un volume di cui il mondo culturale, ma non solo, aveva atteso l’uscita per 20 anni. Tanto l’autore ci lavorò e tanto la Mondadori attese per mandarlo in stampa. Giudizio controverso: per chi lo scrisse doveva essere “il libro dei libri”, per sé e per gli altri. La lunghezza, in tempi di istantaneità del vivere già allora, invece, lo penalizzò. Doveva essere una sorta di “Ulisse” di Joyce, fu accolto come una promessa mancata, o mantenuta a metà o meno. Forse fu ed è opera incompresa. Ma il mondo descritto da Stefano D’Arrigo era il mio mondo: vi riconoscevo i racconti di cui, bambino e poi adulto, mio padre mi faceva privilegiato destinatario, dopo che lui lo era stato da suo padre e dal padre di suo padre, e così all’indietro nella catena di generazioni di pescatori che si è interrotta con me. Fisicamente, ma non mentalmente. L’archetipo junghiano mi resta dentro. D’Arrigo – nato ad Alì Terme e laureato a Messina – era più di un conterraneo, era per me quasi un compaesano. Ma soprattutto aveva saputo vivere e descrivere quella psicosfera a cui ero stato iniziato e che ho vissuto. Da ragazzo e oltre, aspettavo con ansia l’estate per essere assoldato nella ciurma ammutinata di studenti-pescatori, uomini di mare improvvisati, croce e delizia di mio padre – padrone di barca e “commander in chief” – che faceva di “raustina” e “palamitara” un’ars magica. Quella di pescare costardelle, alalunghe e pescespada: l’arte di catturare ma anche quello di fabbricare reti, secondo quei sottilissimi equilibri tra sugheri e piombi, maglie larghe e maglie strette, dimensionate su abitudini e abilità del pesce, osservate e sperimentate in due secoli almeno. “Misteri” li chiamava papà in lingua madre, parola che metteva insieme la dimensione della fatica e del misterioso tramandarsi di segreti non scritti, sull’apprendere quel gioco d’intelligenza e callidità tra pescatore e pesce, “depositum fidei” di tradizioni, leggende, tecniche che facevano del pescare e dell’andar per mare, tra soli cocenti e notti stellate, un lavoro durissimo: biblico sudore della fronte, ma anche modo di vivere con una sua irresistibile estetica.
Per me le parole di “Horcynus” erano lessico familiare imparato da piccolo: “fera” e “ferone”, “pescebestino” e “cicirella”, eccetera. E lo avevo imparato dalle labbra di mio padre che era un vero “pellesquadro”: un uomo cotto dal sole e dal sale, la cui pelle è immaginata come quella di uno “squadro”, di uno squalo.
Ora leggo di iniziative della Fondazione “Horcynus Orca”, presieduta da un uomo intelligente, culturalmente distante da me, che a mio parere ha fatto non male da amministratore pubblico e meglio da operatore culturale.
La Fondazione fa bene a precisare che “non è una società organizzatrice di eventi e spettacoli, ma un progetto scientifico che lavora tutto l’anno per raggiungere obiettivi concreti riguardo alle politiche sociali ed il dialogo tra il Nord e il Sud del Mediterraneo”. E come tale capisco che si occupa di riciclo, alimentazione, fotovoltaico, financo di genocidio armeno, jazz e cinema. Tutte interessantissime cose, che – a mio modo di vedere – c’entrano fino a un certo punto col nome impegnativo che porta. E soprattutto con la memoria e l’opera di Stefano D’Arrigo. Che soffrono. Tanto. Convinto – ma voi siete liberi di non crederci – che in modo arcano i testi di ciò che leggiamo “cambiano” negli anni e avendolo prestato – sapete di quei prestiti che diventano regali a nostra insaputa – nelle scorse settimane ho cercato di comprare “Horcynus Orca” nelle due più importanti librerie di Milano – la Feltrinelli e la Mondadori (che lo editò) – ma non ci sono riuscito. Non c’erano copie disponibili: è un libro fuori catalogo. Quanto alle opere teatrali che hanno messo in scena a suo tempo l’opera, non vedo più traccia. Che sia questo il problema e l’essenza “letteraria” di un’opera così intimamente legata a Messina, un po’ più dell’ottima “musica nomade” ? Le cui note – sia chiaro – so essere molto apprezzate a Capo Peloro. Chissà, anche dalle “fere” di D’Arrigo. Lì, al largo.





